Care fratelli e sorelle ,
mi scuserete se non riesco a trovare un appellativo perfettamente adatto a questo contesto. ‘Compagni’, ‘amici’, ed anche l’impronunciabile ‘camerata’… sono tutte parole che evocano storie, talvolta gloriose, talvolta divisive, talvolta vergognose. Forse dovremmo iniziare a pensarci come **alleati umani**, o meglio ancora **testimoni attivi**: donne e uomini consapevoli che ciò che ci unisce oggi non è l’appartenenza ideologica, ma la volontà comune di porre un argine al degrado umano, politico e sociale che ci circonda.
Siamo infatti compresenti nella stessa urgenza storica, perché oggi più che mai, ci troviamo non a fare la storia, ma a subirla, spesso disarmati, spesso isolati. Noi della FISI veniamo da una stagione di emergenza, in cui abbiamo aperto le nostre porte a tutte e tutti coloro che sentivano il bisogno di difendere il lavoro, la dignità e la libertà umana, al di là delle provenienze culturali, ideologiche o politiche.
Per questo abbiamo ricevuto etichette improprie, siamo stati guardati con sospetto, talvolta esclusi dalle piazze. Ma abbiamo sempre preferito l’inclusione alla purezza, il dialogo al sospetto, il valore umano alla fedeltà ideologica.
Il nostro obiettivo non è occupare uno spazio politico o sindacale, ma riconnettere il mondo del lavoro alla sua dimensione originaria: quella umana, ed è per questo che rivendichiamo con forza l’autonomia del sindacato da ogni forza partitica. È stato proprio l’intreccio malsano tra sindacati istituzionali e partiti a recidere i legami con la società viva.
Oggi siamo qui non per unire le nostre bandiere, ma per consolidare ponti umani, relazioni vere, basate sul rispetto reciproco e sulla comune consapevolezza che certi meccanismi globali stanno portando l’umanità sull’orlo del disastro.
E proprio su questo punto, voglio proporre una riflessione che ci riguarda tutti. Se siamo davvero uniti nel denunciare l’orrore del genocidio in Palestina, provo dolore ad accettare che una stessa città ospiti due manifestazioni sullo stesso tema, nello stesso giorno, ma in luoghi diversi e con percorsi divisi, cosa ci impedisce veramente di superare certi ostacoli che ci indeboliscono e ci polverizzano? Ovviamente questa mia riflessione, riguarda tutti e non solo chi si riconosce in questa assemblea.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la frammentazione del dissenso è il miglior alleato del potere.
Anche se condividiamo gli obiettivi di fondo, lasciamo che differenze di linguaggio, diffidenze reciproche o sensibilità politiche ci impediscano di essere veramente efficaci. Così, pur lottando per le stesse cause, ci indeboliamo.
Questo tentativo che oggi facciamo di costruire ponti, di creare convergenze , non sarà l’ultimo. Dobbiamo considerarlo un primo passo, un gesto di maturità e di intelligenza politica , promettendoci che, pur nelle differenze, continueremo a cercare ciò che può unirci.
Comprendiamo l’allarme e la diffidenza verso alcune sigle partitiche che oggi sembrano cavalcare cause che in passato hanno ignorato o addirittura ostacolato e condividiamo l’idea di tenere alta l’ attenzione ,siamo però interessati a riconoscere i veri intenti delle forze in campo piuttosto che a fidarci delle loro parole. Per questo ci chiamiamo fuori dalle logiche dell’appartenenza ideologica: non ci interessa “dove stanno”, ma “da che parte stanno”.
Oggi la parte giusta è quella che si oppone a ogni forma di oppressione, che difende la pace e la dignità umana, che rifiuta il militarismo come destino. Per questo rivendicare la necessità di affrancarsi dalla NATO è un atto di sopravvivenza collettiva, di libertà e di coerenza.
Non ci interessano le alleanze strumentali, ma le convergenze sincere. Quelle che nascono non dalla convenienza ma dalla necessità di restituire dignità a chi lavora, a chi resiste, a chi ancora spera.
Oggi noi abbiamo fatto una scelta precisa che è quella di collegare lo sciopero generale di ieri con la manifestazione di oggi perchè la consapevolezza sia completa e perchè non possiamo continuare a parlare di lavoro, diritti e giustizia sociale senza affrontare con chiarezza il tema della guerra.
Ogni conflitto armato, anche quando viene camuffato da “missione di pace” o “difesa della democrazia”, ha conseguenze dirette e devastanti sull’economia reale e sul lavoro. A pagare il prezzo delle guerre non sono mai i grandi decisori, né le élite economiche o i signori degli armamenti, ma i lavoratori, le famiglie, le comunità.
La guerra sottrae risorse pubbliche alla sanità, alla scuola, alla cura delle persone e dell’ambiente. Gonfia i bilanci della difesa e ingrassa le industrie belliche, mentre impone tagli e sacrifici a chi lavora. Ogni euro speso per le armi è un euro tolto alla vita.
Quando si parla di “economia di guerra”, bisognerebbe avere il coraggio di dire la verità: è un’economia che genera profitti per pochi e povertà per molti. Aumenta il PIL ma affama la società. Produce potere per gli Stati, ma schiavitù per i cittadini.
La guerra crea precarietà, alimenta l’inflazione, giustifica la compressione dei salari, rende “normale” l’eccezione. In nome dell’unità nazionale, si zittiscono le rivendicazioni. In nome della sicurezza, si annullano i diritti.
E intanto si prepara una generazione a vivere nell’idea che il conflitto sia inevitabile e che la pace sia una debolezza.
Non aver voluto tenere insieme la lotta per il lavoro e la lotta contro la guerra è una colpa storica.
Perché sono due facce della stessa battaglia: quella per l’umanità, per la dignità, per un mondo in cui la vita venga prima del profitto.
Chi difende il lavoro ma tace di fronte alla guerra, nega le sue stesse parole. Chi combatte la guerra ma non si batte per i diritti sociali, nega la giustizia che dice di volere.
O ci salviamo insieme, oppure continueremo a sacrificarci ,uno alla volta , sull’altare di un potere che non ci appartiene.
Ciro Silvestri
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